C’era una volta un frutto, misterioso per il resto del mondo ma ben noto ai contadini degli altopiani colombiani al confine con l’Ecuador e con il Venezuela, dove cresceva su brutti cespugli spinosi alti anche tre metri. Di colore arancione vivo come un agrume, aveva però la buccia sottile come quella di un caco mentre l’interno somigliava a quello di un pomodoro. Ogni tanto in Colombia capitava qualche straniero che ne afferrava uno bello sodo e subito lo riponeva, infastidito dalla peluria spinosa che s’era ficcata nelle sue dita. Poi, con cautela, lo tagliava a metà e infilava un cucchiaio nella verde polpa piena di semini, ma subito desisteva, disgustato dal sapore acido. I campesinos che assistevano alla scenetta si lasciavano sfuggire una risatina ironica. Loro sapevano che il lulo (tale era il nome di quel frutto) era adatto solo a preparare la lulada, un succo con ghiaccio e latte, o ad arricchire qualche ricetta contadina. Ma, soprattutto, sapevano che, per apprezzarne il sapore quasi di ananas, doveva essere tanto maturo e molle da poterlo schiacciare con un dito. Allora sì che, anziché un mostro detestabile, il lulo diventava un frutto appetibile. Poi, da quando se ne sono impadroniti i più innovativi e creativi chef colombiani, il lulo si è imposto come uno dei tanti umili protagonisti di una vivacissima scena gastronomica intenta a inseguire quella peruviana, che per il ceviche e i suoi chef-star è da tempo la più acclamata del Sudamerica (e non solo). Per di più, la scienza ha scoperto che il lulo possiede una quindicina di caratteristiche salutari e che fa bene dal sistema immunitario alla digestione, dalla pelle alla vista, dal cuore alle ossa. Successo assicurato, dunque.
La parabola del lulo riassume quanto sta accadendo sulle tavole e nei ristoranti colombiani: sapori tradizionali, frutti autoctoni, ricette contadine sono recuperati e attualizzati da cocineros reduci da stage in grandi cucine di New York o di Parigi. Il boom economico dell’ultimo decennio e la maggior tranquillità sociale, dovuta ai concreti avanzamenti del processo di pace tra governo e guerriglia, ha indubbiamente favorito lo sviluppo di una nuova creatività, che riguarda non solo il cibo ma anche l’arte, la musica, l’architettura, persino l’urbanistica (notevolissimo il sistema di trasporto urbano di Medellin, dove una serie di funivie collegano al centro baraccopoli un tempo tagliate fuori dalla vita sociale). Così la Colombia, dove la cucina è sempre stata poco ricercata, limitandosi alla tipica e semplice comida criolla, d’improvviso ha conquistato un posto nell’atlante gastronomico internazionale. La rivoluzione gastronomica (assai più pacifica e salutare delle tante idee di rivoluzione che hanno insanguinato il paese) riguarda ovviamente soprattutto le città principali, da Bogotá a Medellin, da Cali a Cartagena, dove i residenti più benestanti e i turisti stranieri sempre più numerosi alzano la richiesta di una ristorazione di qualità. Nella capitale Bogotà, per esempio, vent'anni fa era difficile mangiare altro che chicharrones (cotiche di maiale fritte) e arepas (pane di mais bianco) ripiene di carne, o di formaggio, o di uovo, o di tutto quanto insieme. Oggi, dal centro storico de La Candelaria ai quartieri emergenti (Zona T, Parque 93, La Macarena, Zona G, Usaquen…) i menù sono sempre più complessi e appetitosi: a ogni livello, sino a quello supremo del ristorante Abasto dove le più delicate empanadas mai viste in Colombia sono servite con una aji (salsa piccante) al lulo. Siamo, del resto, nel ristorante di uno dei volti più freschi e simbolici della nueva cocina colombiana, la chef Luz Beatriz Vélez. Promettente soprano, per studiare canto era andata a Londra dove però la prese un’idea irresistibile: imparare a cucinare. Così nel 1990 Luz si spostò a Parigi. Tornata in patria, la Vélez è oggi la cuoca più famosa della Colombia, in cucina e anche in tv. Una piccola donna sicura di sé, capace di fondare le prime scuole di cucina del paese e aprirne le porte a tanti giovani poveri che la guerriglia aveva costretto a fuggire dalle loro campagne. Luz Vélez è decisa anche nel propugnare una filosofia dello “slow food” che poi, come dice lei stessa, non è altro che tornare a come i colombiani mangiano da sempre.
In effetti, in Colombia quando ci si siede in un ristorante il pasto può durare quattro ore. Ma non è questo lo “slow” cui si riferisce la Vélez. È piuttosto l’abitudine a consumare prodotti genuini, salutari e spesso assolutamente autoctoni. Come il lulo e come le tantissime varietà di frutti, sconosciuti ai palati stranieri, esotici nel nome ma anche nell’aspetto: guanabana, borojó, mamoncillo, curuba, zapote, uchuva, granadilla morada, tomate de árbol, mamey, feijoa... Molti di essi sono usati per preparare succhi, gelati o marmellate, quasi tutti hanno riconosciute proprietà salutari o energetiche. Singolare il caso del borojó, che cresce nelle foreste della piovosissima costa pacifica dove gli indigeni Chocoes lo usavano anche per curare le ferite e imbalsamare le salme.
Molti prodotti colombiani della terra si trovano solo nella zona di produzione e non sono neppure distribuiti su tutto il territorio nazionale. Anche questa è una buona ragione per andare a conoscerli sul posto, visitando regioni di straordinaria bellezza, passando dalle spiagge caraibiche ai picchi andini, dalle giungle tropicali alle piantagioni di cacao, di caffè, di canna da zucchero. Per chi visita la Colombia, l'Eje Cafetero (la Zona Cafetera) è ovviamente una tappa tanto obbligata quanto remunerativa, con la sua natura verdissima e i villaggi di casette colorate: val la pena di seguire le popolari figure di Juan Valdez e della sua mula Conchita, da oltre mezzo secolo simboli del caffè colombiano, per esplorare le lussureggianti piantagioni della zona centro occidentale del paese. Da qui provengono i 12 milioni di sacchi che fanno della Colombia il terzo produttore di caffè del mondo (ma il primo di Arabica, la qualità migliore).
Affascinanti sono anche le zone dove Slow Food Colombia ha voluto quattro presidi per sostenere i piccoli produttori locali, tutelando quattro “specialità”: la prima è il cacao porcelana che cresce dove pochi anni fa si coltivava coca, sulle pendici della Sierra Nevada de Santa Marta, massiccio che dal Mar dei Caraibi sale dritto dritto fino a quasi seimila metri; la seconda, il fagiolo guajiro, di colore grigio, bianco, blu o maculato, che gli indios wayuu, coltivano attorno a Manaure, il “villaggio bruciato dal sale dei Caraibi” dove Gabriel García Márquez ambientò Cronaca di una morte annunciata; la terza, le tante varietà di mais nativo coltivate nel mosaico di campi che caratterizza il dipartimento di Nariño, nel sud ovest colombiano, al confine con l’Ecuador. Infine, quarto presidio Slow Food è il granchio nero di Providencia, che si aggira nei boschi dell'arcipelago caraibico di San Andrés, Providencia y Santa Catalina, isole circondate dalla barriera corallina e che dal 2000 sono “Riserva della Biosfera” Unesco. Questo grande granchio di terra sostiene l’economia dei raizal, gli abitanti locali, discendenti da schiavi africani e navigatori britannici. Ed è anche il protagonista di una favolosa zuppa con aglio, pepe, gnocchi di farina, patate dolci, latte di cocco ed erbe aromatiche. Da provare assolutamente. Ma non a Bogotá: per gustarla, non c’è altro modo che volare sull’isola.